Riflessioni sulla criminalizzazione del movimento


5 arresti domiciliari, 17 obblighi di firma, 22 abitazioni perquisite all’alba, 78 indagati, 7 dei quali ritenuti appartenenti ad un’associazione a delinquere, fulcro di tutta l’inchiesta: questo il bilancio, sbattuto a tempo di record su tutti i maggiori canali d’informazione, dell’ennesima ventata repressiva che si concretizza durante un’assolata primavera fiorentina.

La montatura poliziesca parla dell’annientamento di una pericolosa cellula anarcoide, resasi protagonista di innumerevoli reati contro persone e patrimonio, stroncata giusto in tempo, ossia prima che potesse entrare a pieno titolo nel misterioso mondo dell’anarco-insurrezionalismo. Tale tesi è sostenuta e avvalorata dal sequestro di una gran quantità di materiale potenzialmente pericoloso.

La realtà, per fortuna lontana anni luce dalle farneticazioni di giornalisti imboccati a dovere dalla questura, racconta una composizione estremamente eterogenea dei compagni fermati, che appartengono a realtà diverse, diversamente caratterizzate. Compagni che hanno però saputo prescindere da etichette troppo strette per essere calzanti, che hanno saputo autorganizzarsi in maniera consapevole e determinata, che sono stati in grado di dare vita ad una mobilitazione studentesca la cui presunzione è stata quella di voler incidere, per una volta, in processi decisionali di palazzo troppo distanti da una quotidianità fatta di precariato, ingiustizia e rabbia. Le pratiche utilizzate sono state dettate da una frustrazione finalmente non più repressa, e sono quelle che da sempre accompagnano mobilitazioni popolari che si rifiutano di accettare l’appagamento fittizio che accompagna le sfilate rituali. Blocchi stradali, cortei non autorizzati e occupazioni non sono stati atti vandalici fini a se stessi: sono al contrario azioni che mirano a condizionare il presente, che esprimono la voce di chi è disposto a mettersi in gioco nella costruzione della società che desidera, anche commettendo un reato. Affrontare la combinazione giustizia-legalità è il primo passo di questo cammino: destrutturarla significa ammettere che la legge è scritta dall’autorità, che ne dispone a proprio piacimento condannando il giusto ed ufficializzando la prevaricazione; è per questo motivo che non dobbiamo vergognarci di non obbedirle mentre pretendiamo i diritti che ci sono dovuti.

Non deve sorprendere, di conseguenza, che il tentativo di voler influenzare la realtà, contro interessi e organismi grandi come montagne che al contrario cercano di isolarla, venga così duramente punito. Ma nessuna consapevolezza può giustificare la mancanza di stupore di fronte ad un castello accusatorio delle dimensioni di quello costruito dalla questura fiorentina. La sproporzione tra accuse e provvedimenti è talmente palese, come d’altronde confermano gli atti ufficiali e le dichiarazioni degli stessi questurini, che l’unica motivazione plausibile sembra essere quella di un processo alle intenzioni in grande stile. Interrompere un percorso, intimidire per arginare processi di crescita politica personale, mostrarsi in tutta la propria potenza e meschinità: sono queste probabilmente le giustificazioni a cui un’operazione del genere fa capo e che la rendono ancora più pericolosa. È per questo che chiunque possieda un briciolo di sensibilità ha obbligo di sentirsi toccato direttamente, perché il meccanismo disciplinare non aspetta di trovarsi di fronte a fatti computi per entrare in azione, ma al contrario rilancia e anticipando la proprie mosse pretende di entrare direttamente dentro le teste per correggere il pensiero malato. Oggi è toccato a “pericolosi” anarchici, domani forse potrebbe essere il turno di tutti coloro che rifiutano di obbedire, omologarsi e rinunciare in partenza alla propria capacità critica.

Il tentativo di bloccare un percorso personale coincide in questo caso con l’aggressione ai rapporti sociali che i singoli intraprendono: lo dimostrano il reato associativo, capo di accusa principale, e la faziosità con cui sono stati allegati al fascicolo le trascrizioni delle intercettazioni. Il principale imputato è il rapporto sociale, sano, costruttivo e non metodicamente programmato, che viene corroso e disgregato in favore di relazioni sterili e impersonali.  Da una parte quindi si puniscono i membri riconducibili ad una realtà circoscritta ed i loro rapporti individuali, dall’altra si provano addirittura ad isolare da persone e realtà che potrebbero essere potenzialmente solidali, attraverso la sapiente semina di un odio ipocrita, costruito a tavolino.

Solidarietà è una parola di cui si abusa, mai a sproposito, in casi del genere. Solidarietà in questo caso significa in primo luogo instaurare connessioni su molteplici livelli che devono, con la loro tela, inibire la violenza dell’aggressione che stiamo subendo. Per il resto, continuiamo sereni, senza la vergogna di cui ci vorrebbero far portatori, a percorrere il cammino che abbiamo intrapreso, convinti che le cadute sono fatte per rialzarsi.

COLLETTIVO D’AGRARIA

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